Il parere legale del nostro direttore scientifico Franco Pastore sulle note questioni che dividono counselor e psicologi

COMMENTO

al documento CNOP e alla bozza di norma

Il documento del CNOP, fin dal titolo, fa riferimento agli atti tipici e a quelli riservati della professione di psicologo, con l’intento dichiarato di inibire tutti tali atti alle nuove categorie professionali, pure presenti nel mercato, che in qualche modo prevedono interventi diretti alla realizzazione del benessere della clientela.
Il primo problema da esaminare è quello della possibile esistenza di atti riservati, e sono tali, come vedremo, quelli che una legge espressamente qualifica in questo modo vietandone l’attuazione ai non iscritti. Perché un atto sia così qualificato occorre, cioè, un divieto formale: questa necessità è legata all’esigenza del cittadino di avere certezze in ordine a ciò che gli è inibito per poter evitare di incorrere in una responsabilità penale; si tratta di un principio generale sancito dalla costituzione.
Va aggiunto che la legge che qualifica un atto come riservato ha natura di norma eccezionale che si pone cioè in contrapposizione con i principi generali: questi, nel nostro caso sono costituiti dalla regola che tutto ciò che non è vietato è permesso e dalla disciplina, tanto europea quando costituzionale della libertà di concorrenza. Trattandosi di norma eccezionale, non ne è consentita una interpretazione estensiva o, peggio, di carattere analogico: non può essere applicata a casi simili.
Premesso ciò, non è difficile accertare che non esiste alcuna norma che espressamente vieti atti in tema di attività professionale dello psicologo.
Ciò è vero anche nell’ambito della psicoterapia, distinta dall’attività dello psicologo solo per l’aspetto formale della specializzazione in ambito formativo; e tanto meno è distinta l’attività dello psicologo-psicoterapeuta da quella del medico-psicoterapeuta rispetto al quale non c’è l’obbligo di una formazione in psicologia.
Che non esistano norme indicative di atti riservati risulta anche dal parere del CNOP, che non ne cita che una sola, peraltro stravolgendone il significato.
Si tratta del richiamo alle funzioni descritte nella legge 170/2003 relative agli iscritti nella sezione A dell’albo degli psicologi: secondo il CNOP quelle funzioni sarebbero attribuite “in via esclusiva” agli iscritti.
Ma così non è: la norma ha proprio lo scopo opposto e cioè quello di indicare l’attività di quei professionisti, senza tuttavia inibire loro attività diverse consentite invece solo agli iscritti nella sezione B. Tanto poco l’attività descritta è affidata in via esclusiva che non è pensabile che possa essere vietata agli altri iscritti e ai medici-psicoterapeuti.
Confermato, allora, che nell’ambito della professione psicologica non esistono atti riservati, salvo quanto dovremo dire appresso, non resta che esaminare gli atti tipici.
L’opinione del CNOP, ampiamente espressa nei documenti trasmessi al Gruppo di Lavoro, può essere agevolmente sintetizzata in poche parole: l’attività di counseling, svolta professionalmente è illecita perché costituisce esercizio abusivo di attività riservata; è tale perché si tratta di un’attività svolta attraverso l’attuazione di atti tipici dello psicologo, e cioè atti diretti alla costruzione del benessere, inteso nel senso della definizione OMS della salute, atti che si traducono nell’utilizzo di strumenti psicologici che a loro volta presuppongono teorie e tecniche scientifiche che chiedono una formazione universitaria.
Questa opinione appare destituita di fondamento perchè si pone in contrasto anzitutto con la disciplina dell’ordinamento giuridico.
Il primo punto da esaminare riguarda il problema giuridico della natura degli atti tipici e della loro eventuale illiceità.
Il problema egli atti tipici è stato sollevato dalla sentenza n. 767/2006 della Corte di Cassazione.
In precedenza il reato di esercizio abusivo di professione riservata consisteva esclusivamente nella attuazione di atti riservati agli appartenenti alla categoria professionale protetta.
Il reato, così come era configurato, è commesso anche attraverso un solo atto e l’interesse tutelato è quello dello Stato a tutela di un corretto andamento sociale nell’ambito di problemi rilevanti come la salute.
Gli atti non espressamente riservati erano dunque liberi.
La sentenza 767 ha modificato questo assetto normativo parlando per la prima volta di atti tipici e introducendo una nuova fattispecie criminosa: il reato di esercizio abusivo di professionale riservata è commesso anche attraverso lo svolgimento di atti tipici di una professione cosiddetta protetta.
Occorre tuttavia esaminare la fattispecie delineata dalla sentenza per individuare gli elementi costitutivi che debbono essere presenti nel caso concreto perché ne derivi responsabilità penale.
Per prima cosa va esaminato il concetto di atto tipico: fermo restando che deve trattarsi di atto libero, la sentenza fa riferimento in via esclusiva alla percezione che la società civile ha di quell’atto come caratteristica individuante di una determinata professione protetta. Nella sentenza non c’è alcun riferimento che possa collegare l’atto con la sua difficoltà e con la sua scientificità, cioè con il riferimento a teorie da applicare. Su questo punto il CNOP equivoca quando ritiene non attuabile un atto tipico proprio per il suo riferimento alle teorie scientifiche e alle tecniche psicologiche.
Vale la pena di sottolineare che le teorie scientifiche sono un patrimonio dell’umanità e chiunque può conoscerle e tenerne conto nella sua vita; e quanto alle tecniche suggerite dalla scienza, sono tutte utilizzabili da chiunque alla sola condizione che il loro uso non integri l’ipotesi di atto riservato.
Il secondo elemento della nuova fattispecie che deve essere presente è la professionalità dello svolgimento di atti tipici. La professionalità deve apparire e la sentenza fa riferimento a vari elementi che la segnalano; si tratta dell’esistenza di almeno un minimo di organizzazione stabile, della continuità del lavoro, dell’esistenza del corrispettivo. E’ chiaro anche se implicito il riferimento a ciò che può ritenere attraverso questi elementi un possibile cliente.
In sostanza, attraverso i due elementi ora esaminati la clientela potrebbe formarsi l’opinione che il professionista che ha davanti faccia parte della categoria professionale riservata: lo svolgimento di atti tipici dello psicologo e la professionalità potrebbero far pensare che si tratti proprio di uno psicologo, se non addirittura di uno psicoterapeuta, quando invece si tratta di un counselor.
Ebbene, il rimedio a ciò trovato dalla sentenza costituisce il terzo elemento componente della fattispecie criminosa: si tratta di quella che è definita come “l’assenza di chiare indicazioni diverse”.
In altre parole commette il reato chi non provvede ad informare adeguatamente il singolo cliente in ordine alla sua collocazione professionale e, ritengo, anche in ordine alla sua formazione.
Aggiungo che questa assenza di indicazioni funziona come una esimente: si deve ritenere che l’assenza è presunta finchè il professionista non offre nel processo la prova contraria.
La difficoltà probatoria grava sul counselor ed è opportuno per questa ragione adottare una forma scritta.
Da quanto precede appare chiaramente che l’interesse tutelato attraverso la previsione della fattispecie criminosa non è quello dello Stato ma solo quello della clientela. Per lo Stato si tratta comunque di atti liberi, la cui presenza non incide sulla gestione di interessi collettivi, magari relativi alla salute: se così fosse lo Stato provvederebbe ad individuare i comportamenti pericolosi e ad inibirli espressamente, trasformandoli in atti riservati.
L’interesse della clientela è quello di scegliere con consapevolezza e a ragion veduta il tipo di professionista al quale rivolgersi, e le informazioni rispondono allo scopo.
E dunque, in presenza delle “chiare indicazioni diverse”, diventa lecito lo svolgimento professionale di atti tipici.
Vale la pena ricordare che la sentenza riguardava l’attività di tenuta dei conti, facilmente indicativa della professione di commercialista. Esempi simili si trovano nelle norme UNI relative a nuove professioni, che spesso si sovrappongono nei loro contenuti attuativi a professioni riservate.
I pareri del CNOP sembrano non tenere alcun conto del fatto che, riguardo al counseling, le chiare indicazioni hanno la forza di rendere del tutto liberi gli atti tipici: non si pone, dunque alcun problema che possa implicare l’illiceità della professione di counseling.

 

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Il tema degli atti riservati, di quelli tipici e di quelli liberi si è venuto a modificare per effetto della legge 3/2018, la legge Lorenzin.
Questa legge si è aggiunta al divieto di applicare la L. 3/2014 alle attività sanitarie, quasi cambiandone il significato.
Oggi non è più possibile esercitare una professione sanitaria se questa non è regolata da una legge attraverso una specifica disciplina ordinistica.
La legge in questione non specifica il significato della parola “sanitario” e si limita ad elencare e disciplinare le professioni che lo Stato ritiene tali.
Il problema cade così sull’interprete: trattandosi di norme eccezionali ricordo tuttavia il divieto di interpretazioni estensive o analogiche.
Questa necessità è stata di recente confermata dal recepimento nel diritto italiano della Direttiva Europea del 28/6/2018, la cosiddetta Direttiva Proporzionalità: questa, tra l’altro, impone al legislatore statale di specificare quale parte dell’attività relativa ad una professione riservata debba esser in concreto inibita ai non iscritti.
Questa indicazione porta inevitabilmente a dover ritenere che l’attività sanitaria non debba esser considerata di per sé riservata, ma che debba farsi riferimento a specifici atti.
Orbene, l’argomento più illustrato nel documento del CNOP consiste proprio nel ritenere che tutta l’attività dello psicologo debba ritenersi riservata e ciò per la necessità che sia supportata da una formazione accademica, scientifica e tecnica, che garantisca la salute della clientela.
A questo argomento il documento ne aggiunge un altro, in forma di sillogismo: l’attività dello psicologo ha di per sé natura sanitaria, il counselor svolge un’attività identica e quindi il counseling è illecito.
Questa affermazione viene giustificata attraverso il richiamo della definizione della salute dell’OMS, in forza del quale la salute riguarda non solo la malattia ma anche il benessere. Non risulta peraltro che la legge 3/2018 abbia fatto riferimento al concetto dell’OMS e anzi, nel tutelar la salute dei cittadini richiama la necessità che l’intervento professionale sia tale da non produrre malattie. E va aggiunto che nel linguaggio comune per attività sanitaria si intende proprio quella diretta alla cura delle malattie.
Lo stesso riferimento è reperibile nella nota sentenza del Consiglio di Stato: il counseling appare essere un’attività lecita perché non si propone di curare nulla o nessuno e quindi non è sanitaria, salve le eventuali deviazioni del singolo professionista.
Se poi si osserva l’attività dello psicologo si scopre agevolmente che non può essere considerata di per sé e per intero come sanitaria: ciò è indicato in maniera inequivocabile dal fatto che per gran parte è svolta attraverso il dialogo, atto certamente comune e non tipico, che vede l’uso di parole che spesso si riferiscono al loro senso comune; certo non esiste un elenco di parole il cui uso sia vietato ai non iscritti.
Si prenda il caso della parola “diagnosi”, alla quale il CNOP collega aspetti scientifici citando la definizione che ne ha dato l’A.P.A., e la correla all’applicazione dei sistemi nosografici come il DSM e l’ICD. L’affermazione è corretta, ma si da il caso che anche il meccanico e l’elettrauto utilizzino la parola diagnosi il cui significato comune è depurato dai riferimenti scientifici e significa conoscenza ottenuta attraverso elementi indicatori.
A questo proposito vale la pena osservare che la bozza di norma in discussione è stata concepita con l’accortezza di non utilizzare termini il cui significato tecnico avrebbe potuto creare equivoci nel lettore: sono state utilizzate solo parole generiche, nel loro significato nel linguaggio comune: le contestazioni dei rappresentanti degli Ordini hanno da un lato contestato la genericità e la mancanza di specificità per poi opporsi al testo attribuendo alle parole comuni significati scientifici. Ricordo una discussione di due ore intorno ad una sola parola, accoglienza; e anche l’espressione “comprendere le richieste del cliente” è stata tradotta in “analisi della domanda”, espressione tipica della psicologia.
Osservando ancora l’attività dello psicologo nel suo complesso appare con tutta evidenza un altro fenomeno: si tratta della coincidenza assoluta di molti comportamenti con quelli attuati da ogni uomo nella sua vita.
Si tratta di comportamenti come quelli di chi vuol sedurre il prossimo partner, della madre che alleva il figlio, del figlio che assiste il genitore anziano, e anche del docente che insegna, del trainer con i suoi atleti, del sacerdote col suo fedele, del medico che ottiene l’adesione del paziente alla cura e di ogni professionista con la sua clientela: sono tutti comportamenti che si basano sulla psicologia e che potrebbero produrre risultati migliori proprio con una migliore conoscenza di questa.
E per ottenere questo scopo non occorre una formazione accademica: basta un incremento della cultura generale in ambito umanistico e sociale per ottenere che l’accoglienza sia qualcosa di più di “si accomodi”.
La conclusione che deriva da tutto ciò è che non tutta l’attività dello psicologo può esser compresa nell’ambito sanitario: molta parte di essa coincide con l’attività umana per modo che non si tratta neanche di atti tipici ma di atti liberi.

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Il problema, allora, diventa un altro: si tratta di individuare nell’ambito dell’attività dello psicologo gli atti che per la loro natura intrinsecamente sanitaria debbono intendersi vietati ai non iscritti.
In proposito la L. 3/2018 ci offre solo la parola “sanitario”, con un chiaro riferimento alla cura di malattie; preciso tuttavia che non ha alcun rilievo l’intenzione dell’operatore, perché è l’atto in quanto tale che deve avere la natura sanitaria.
E non ha molto rilievo il rischio che attraverso gli atti sanitari possa essere pregiudicata la salute del cliente, se è vero che molte patologie vengono collegate ai comportamenti dei genitori verso i figli senza che i loro atti possano essere definiti come sanitari.
Un’indicazione utile viene offerta dalla disciplina fiscale: questa esonera dall’IVA gli interventi professionali, diretti alla cura, che hanno ad oggetto in maniera immediata e diretta la persona del paziente; non lo è una docenza mentre lo è una seduta di ipnosi.
L’atto sanitario può dunque esser definito come un atto diretto intrinsecamente alla cura che ha per oggetto immediato la persona del paziente; la natura sanitaria dell’atto va ricercata in concreto, di volta in volta, e non individuata per categorie aventi denominazioni provenienti dal linguaggio comune, come prevenzione, sostegno, aiuto e simili.
Chiarimenti in proposito dovrebbero essere forniti dagli psicologi attraverso l’indicazione delle cure relative alle specifiche patologie che non si svolgono attraverso atti liberi o tipici, attraverso atti realmente sanitari.

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Osservo ora la bozza di norma, con la duplice avvertenza che va esaminata nel suo complesso e che le parole utilizzate indicano il senso che hanno nel linguaggio comune.
Nell’analisi le parole usate appaiono lontane dalle conoscenze scientifiche degli psicologi: gli atti indicati coincidono con quelli liberi ancorchè una parte di questi possa coincidere con quelli tipici della psicologia.
E’ evidente l’assenza di ogni riferimento ad aspetti patologici e di cura, ma si può osservare una caratteristica ulteriore che fa escludere gli atti indicati come aventi natura sanitaria.
La differenza con gli atti sanitari dello psicologo è vistosa: ove anche questi dovessero essere rivolti non già alla cura della patologia ma alla semplice costruzione del benessere, si tratterebbe sempre di atti intenzionalmente diretti sulla persona per ottenere una qualche modificazione.
Al contrario, gli atti indicati nella bozza di norma hanno ad oggetto non la persona ma il problema che questa porta in discussione: l’effetto sulla persona è indiretto, allo stesso modo di quello prodotto dal meccanico che ripara un’autovettura, assicurando in tal modo la serenità e il benessere del proprietario.
E, anzi, c’è da aggiungere che nel counseling la soluzione del problema non è mai suggerita dall’operatore ma è trovata dal cliente.
Il sillogismo che parte dall’identità delle due professioni è perciò errato: non è vero che le due attività siano uguali. Il counseling è una professione di aiuto, rivolta ad agevolare la soluzione del problema da parte del cliente, professione che si attua attraverso la relazione e perciò è naturalmente applicativa di atti di natura psicologica individuabili come atti comuni e perciò liberi; questo aspetto rende necessaria la presenza delle “chiare indicazioni” poiché quegli stessi atti liberi sono anche tipici dello psicologo; non esistono atti specificamente indicati dalla legge come riservati agli psicologi, mentre la natura sanitaria non solo non è applicabile agli atti liberi ma è esclusa dalla mancanza di riferimento alla patologia e dall’individuazione dell’oggetto dell’intervento nel problema e non nella persona.
E’ forte l’interesse sociale a che il lavoro sulla bozza di norma sia portato a termine, proprio allo scopo che gli utenti siano informati e che i singoli professionisti rispettino i limiti che ne derivano.


(avv. Franco Pastore)

 


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